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Invisibili

Veronica Botticelli, Claudia Peill, Perino & Vele, Daniel Rich, Chiara Valentini

testo di Donatella Mezzotero

“Le generazioni peggiorano sempre più.

Verrà un tempo in cui saranno talmente maligne

da adorare il potere; il potere equivarrà a diritto

per loro, e sparirà il rispetto per la buona volontà.

Infine, quando l'uomo non sarà più capace di

indignarsi per le ingiustizie o di vergognarsi in

presenza della meschinità, Zeus lo distruggerà.

Eppure, persino allora, ci sarebbe una speranza, se

soltanto la gente comune insorgesse e rovesciasse

i tiranni che la opprimono”

Mito Greco sull'Età del Ferro

Il tema delle migrazioni occupa oggi grande spazio sia a livello governativo che tra l’opinione pubblica, creando scontri politici e dibattiti etici e morali.

Del resto la questione coinvolge grandi numeri: in Europa tra giugno 2018 e maggio 2019 sono sbarcate 25.000 persone, l’anno precedente circa 35.000. Un calo ragguardevole, grazie ai muri invisibili eretti dall’Unione Europea. A partire dal 2017 sono stati infatti sottoscritti precisi accordi con la Libia allo scopo di impedire le partenze dei migranti, rafforzando il pattugliamento delle coste libiche. Secondo tali accordi, Bruxelles e l’Italia forniscono alla guardia costiera libica finanziamenti, navi, motovedette ed equipaggiamento militare. Lo stesso si sta facendo più di recente anche con Tunisia e Marocco, sebbene un rapporto dell’ONU di fine 2018 abbia documentato i crimini compiuti sui migranti in Libia proprio da parte di funzionari statali e milizie: privazione della libertà e detenzioni arbitrarie in centri ufficiali e non, tortura, violenza sessuale, rapimento per riscatto, estorsione, lavoro forzato, uccisioni illegali.

Così, la presunta urgenza politica di fermare gli sbarchi per la sicurezza sociale sta scavalcando i diritti umani, e si rimane ciechi, come per una sorta di censura psichica, di fronte agli abusi.

Si perde di vista il fatto che il problema non può essere l’immigrazione, ma, semmai, la xenofobia, ossia la diffidenza verso ciò che è diverso, lo straniero. Un atteggiamento dettato dalla paura, che non fa che deprimere l’intelligenza sociale. Lo stesso Platone in un’opera della maturità manifesta preoccupazione per le caratteristiche del viaggiatore. Qualunque siano le sue motivazioni, il viaggiatore non è che un “uccello migratore” e come tale dovrà essere accolto, certamente, ma “al di fuori della città”. I magistrati, aggiunge dovranno vegliare affinché “alcuno straniero di tale specie introduca delle novità” in città, e fare in modo che non si abbiano con lui che relazioni indispensabili “e ancora il più raramente possibile” (Leggi XII, 952).

Dice invece oggi Regina Catrambone, co-fondatrice e direttrice di Moas (la prima organizzazione umanitaria a mettere in mare una nave per i soccorsi ai migranti che tentano la traversata verso l'Europa): “migranti, rifugiati, richiedenti asilo sono stati sempre più spesso rappresentati come numeri, le loro tragedie sono state minimizzate e le loro vite usate per compilare statistiche. Ma quando la narrazione ufficiale si limita ai numeri e ai dati le persone spariscono. (…) Diventano invisibili perché parliamo di loro, ma mai con loro e non ascoltiamo le loro storie. È facile spersonalizzare qualcuno di cui non conosciamo il trascorso, il volto e i sogni. Non serve essere particolarmente forti per offendere ed essere crudeli con un numero. I numeri non hanno sentimenti, ferite o cicatrici. Ma dietro ciascun numero c’è una persona in carne ed ossa che ha dei sogni e un’anima in cerca di un futuro di pace”.

La mostra INVISIBILI presso Galleria Anna Marra parte proprio con un’opera che riflette su questo: lo spettatore viene accolto dall’installazione ambientale interattiva Presenze (2019) di Chiara Valentini. Un’opera che l’artista ha realizzato nell’ambito del progetto “Passaggi”, promosso dall’Associazione Culturale McZee, in collaborazione con CRI Croce Rossa Italiana - comitato di Macerata, e con il patrocinio di ICOM Italia.

Collaborando con i richiedenti asilo ospitati dalla CRI di Macerata, Chiara Valentini ha costruito una decina di spaventapasseri, fantocci dalle fattezze umane utilizzati dagli agricoltori fin dall’antichità per spaventare e tenere lontani gli uccelli, e preservare così il raccolto. Il volto di ognuno di essi è l’autoritratto di uno dei ragazzi che hanno aderito al progetto di arte relazionale, immettendo nei manichini anonimi e inerti una traccia di personalità ed energia vitale.

L’artista fa riferimento diretto al romanzo Il meraviglioso mago di Oz di Lyman Frank Baum, in cui lo Spaventapasseri è uno dei personaggi che accompagnano la protagonista nel suo viaggio verso Oz e, metaforicamente, verso l’autocoscienza di sé. Molti studiosi hanno visto nella fiaba di Baum anche un’allegoria sociale e politica, e, in particolare, lo spaventapasseri è stato indentificato come la rappresentazione della classe agricola.

La stessa Valentini ha individuato questa figura ricollegandosi al fatto che tanti ragazzi immigrati trovino impiego come braccianti agricoli, pensando al legame con la terra come fonte di sostentamento, luogo fertile e universalmente condiviso.

Lo spaventapasseri, in quest’opera corale, diviene la rappresentazione dell’oggetto del pregiudizio, che si offre allo spettatore con la speranza che superi il timore iniziale verso queste figure enigmatiche. Okoro Prince, Akhgbe Damian, Ahmod Shamim Soumamoro Namoury, Keita Moussa, Howlader Nur Jamal, Muhammad Amjad Jayed, MD Azizul Islam, Darboe Sheriff M.L., Shamim Ahmod, Njie Dawda: sono i dieci protagonisti che hanno dato volto all’opera che occupa prepotentemente tutta la sala. Sono presenze, ma rimangono invisibili senza l’interazione con l’altro. Infatti, solo avvicinandosi agli spaventapasseri sarà possibile ascoltarne le voci, attivate da un sistema elettronico che rende l’opera sensibile ai movimenti dei fruitori circostanti. I racconti rivelano piccoli indizi sul vissuto dei ragazzi, che immediatamente ci portano vicini a loro mentalmente oltre che nello spazio fisico della mostra, creando un’empatia basata su esperienze e sentimenti comuni.

 

Proseguono il percorso espositivo le opere di Daniel Rich, Manhattan (2019) e Bauhaus (Orange) (2018), che, come di consueto nel lavoro dell’artista berlinese, ritraggono edifici ed esterni in modo dettagliato e meticoloso. Anche se priva della presenza umana, la ricerca artistica di Rich è focalizzata proprio sull’uomo. L’artista indaga infatti come l'architettura e lo spazio urbano siano espressione del modo in cui viviamo e delle diverse strutture politiche e sociali.

Rich parte da immagini tratte da Google, giornali o fotografie, e con una tecnica precisa e laboriosa utilizza stencil tagliati a mano, centinaia di colori, pennelli e spatole, per creare dipinti ricchi di particolari, linee nette e superfici lisce. Il risultato è una composizione vivace e brillante, che però racconta di un mondo alienante, che ingloba l’uomo anziché accoglierlo. Strutture ed edifici si rincorrono e affollano in maniera soffocante, le città diventano alveari innaturali caratterizzate da un horror vacui che non lascia spazio all’uomo e che ricorda “la città della libertà” descritta nel film La montagna sacra di Alejandro Jodorowsky: un fitto reticolo di bare, che nella forma ricordano proprio le celle costruite dalle api, ben pubblicizzato per convincere gli operai di non aver bisogno né di una casa né di famiglia.

 

Si contrappongono a questa visione i lavori di Veronica Botticelli e Claudia Peill, che mostrano invece ambientazioni più intime e incentrate sulla singolarità dell’individuo.

Quella di Veronica Botticelli è una pittura lieve e malinconica, fatta di vissuto personale, oggetti familiari e domestici immersi in fondi onirici, evanescenti e astratti: Botticelli ripete serie infinite di divani, biciclette e macchine da cucire, come fossero dei feticci della memoria, e li rende così dei veri e propri archetipi in grado di risvegliare i ricordi dello spettatore.

Le due tele in mostra, Lontano da Roma e Via di qui (2018-19), tradiscono nei titoli la nostalgia dell’artista che, trasferitasi da Roma a Parigi, vive i disagi dell’estraneità. Le poltroncine raffigurate emergono nettamente dallo sfondo, una carta da parati che occupa le tele nella loro interezza, ma allo stesso tempo ne sono parzialmente ricoperte, avvolte e attraversate, come in un sogno incoerente, nel lampo di un ricordo improvviso e indistinto.

Ognuno degli oggetti ritratti appare sospeso nel tempo, oltre che nello spazio, e sembra essere in attesa di rimettersi in moto, “tornare in vita”. Una quiete momentanea che fa percepire la presenza umana attraverso una sorta di evocazione, senza rappresentarla mai direttamente. Il rapporto con i quadri di Botticelli si conclude in galleria, con lo sguardo dell’osservatore, che può riconoscersi nella familiarità della raffigurazione e diviene così la presenza tangibile a cui l’artista sulla tela allude solamente.

 

Claudia Peill, che fonde nelle sue opere fotografia e pittura in un costante inganno percettivo, presenta PdO_17_4 (2017), un lavoro dalla serie dedicata al Portico di Ottavia, complesso monumentale della Roma antica.

Caratteristica della ricerca di Peill è l’accostamento di campiture cromatiche astratte e monocromatiche a fotografie di elementi architettonici, anch’essi resi irreali dalla manipolazione in postproduzione delle immagini. In questo modo un luogo noto e abituale diviene insolito, e lo spettatore è colto da sensazioni contrastanti e perturbanti che lo tengono in bilico tra un senso contemporaneamente di familiarità ed estraneità. Il dettaglio, l’interstizio, sfidano l’osservatore a ricostruire l’universale dal particolare, mediante le associazioni mentali che l’opera stimola in lui.

I luoghi immortalati appaiono essere solo dei pretesti: tombini e tapparelle diventano dei pattern grafici, sculture classiche ed elementi di archeologia industriale ricorrono indistintamente, facendo da contraltare alle campiture pittoriche in un gioco di rimandi tra immagini, forme e colori. Fotografia e pittura sono perfettamente fuse, tanto da confonderne l’esatta percezione. Eppure Peill traccia confini netti tra le due zone: la dualità nei suoi lavori è ricorrente e delineata con precisione, ma equilibrata a tal punto da comporre un assolo. Tecnica e composizione svaniscono e il quadro viene percepito come un’immagine pura, subliminale, che comunica direttamente attraverso forme e colori senza essere autoreferenziale.

Anche qui la figura umana è assente, ma protagonista, proprio perché posta al centro di un intento di connessione tra ciò che è ritratto e il vissuto dell’osservatore.

 

Chiudono la mostra le sculture in cartapesta di Perino & Vele, duo di artisti che da sempre utilizzano l’arte come strumento di denuncia sociale.

Kubarkbag (2005) si presenta come una sacca contenente fogli scompaginati. Il riferimento è al Kubark Counterintelligence Interrogation, manuale pratico rivolto agli agenti della CIA che illustra le tecniche di interrogatorio in ambito militare. Top secret fino al 1997, il testo descrive nel dettaglio i metodi coercitivi con i quali ottenere informazioni dai soggetti detenuti. Le pagine del Kubark, rese metaforicamente illeggibili attraverso il processo di macerazione della cartapesta, e ridotte a volantini pronti alla distribuzione, diventano il simbolo dell’affermazione della libertà personale, della vittoria della democrazia sulla violenza. Prima dell’invenzione della stampa a caratteri mobili infatti le notizie potevano viaggiare soltanto oralmente, oppure, nelle classi sociali più elevate, in forma di manoscritto. Il volantino rappresenta quindi il riscatto del popolo contro i potenti, diventando uno strumento di comunicazione di massa e propaganda chiave nei moti di rivoluzione.

Nella serie Elpìs, cui appartiene Elpìs 04 (2013) qui esposto, la cartapesta non è più utilizzata da Perino & Vele come tecnica distruttiva, che tritura materialmente i quotidiani e metaforicamente la quotidianità raccontata, ma come un materiale che intende invece dischiudere alla speranza di un futuro migliore. Il termine “elpìs” deriva infatti dal greco classico e significa letteralmente “speranza”. La serie, composta di fogli in cartapesta impilati in grandi anfore, trae ispirazione dal mito di Pandora, la fanciulla che disobbedì a Zeus e aprì il vaso che il dio le aveva affidato, liberando così tutti i mali nel mondo, ma, infine, anche la speranza.

Il vaso come contenitore figurato di avversità e traversie ricorre anche in altri miti e racconti. L’ultima prova che Psiche deve affrontare per ricongiungersi con Amore è recarsi negli Inferi da Proserpina e chiederle di mettere in un vaso un po’ della sua bellezza. Vinta dalla curiosità e dalla vanità, Psiche apre l’ampolla prima di consegnarla a Venere e sviene per il veleno che in realtà essa contiene.

Nell’Odissea si legge invece: “(…) il cattivo consiglio dei compagni prevalse. Aprirono l’otre, tutti i venti ne uscirono, e il turbine li afferrò all’improvviso e li riportò al largo, piangenti, lontani dalla patria terra”.

 

La mostra si definisce in conclusione come un ciclo aperto, che racconta il genere umano offrendo allo spettatore degli spunti di riflessione su temi chiave legati alla nostra società. Dagli aspetti più intimi e familiari, all’alienazione tipica delle grandi metropoli. Dall’unicità dell’individuo, alla coscienza collettiva. Ognuno degli artisti espone punti di vista differenti per raccontare l’umanità.

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